Giovanni Papini
Pubblicato in:: Nuova Antologia, vol. 292, fasc. 1164, pp. 149-156
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Data: 16 settembre 1920
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È sempre il caso dì scrivere qualche cosa intorno a Papini. Più si cerca di definirlo e di caratterizzarlo, più sembra che egli si sforzi di sfuggirci e di creare un nuovo Papini che ci costringa a mutar giudizio. Ma questa mutevolezza è, intanto, un carattere permanente dello scrittore; per quanto, diciamolo subito, apparente: Papini è sempre rimasto lo stesso nel suo fondo. Si crede il contrario, in generale; si parla delle sue contradizioni e dei suoi cambiamenti. Glieli rimproverano volentieri. Sono superficialità. Su Papini corrono tante leggende e questa è una delle tante.
Val dunque proprio la pena di scrivere ancora qualche pagina su Papini senza pretesa. La tentazione che si ha, di vagabondare e di far della lirica, quando ci si avvicina al suo spirito eccitatore, è la causa principale di quelle leggende. Bisogna guardarsi dal credere a quello che scrivono i giovani intorno a lui. Quello che scrivono è sempre caricato: è difficile che conservino accanto a Papini la calma. Per farlo, bisogna averlo sentito e subìto, come una malattia, averlo «passato». E bisogna guardarsi anche da quello che scrivono i vecchi, che sono sempre impermaliti, o che si convertono a Papini con esilaranti sottomissioni. Occorre parlare con semplici constatazioni, come se si dovesse presentarlo ad uno straniero, per esempio, ad un inglese, che non lo conoscesse affatto.
Ecco che cosa direi al mio inglese.
Nel gennaio 1901 appariva in Firenze, come un temporale non preannunziato da alcun barometro, un singolare foglio letterario, stampato su carta a mano, illustrato con incisioni originali in legno e scritto interamente da giovani fino ad allora sconosciuti, i quali capeggiava in tutti i sensi, con lo pseudonimo di Gian Falco, uno tra loro che ad ogni numero dava un articolo di fondo e schermaglie, che in parole piene di poesia e di passione, di ironia e di romanticismo, di colore e di sensibilità, trattava nel modo più indipendente problemi filosofici e morali di ogni sorta, lontano da ogni preoccupazione d’attualità e spesso con diretta e pungente opposizione a correnti di idee allora prevalenti in Italia, come il positivismo e il socialismo cristiano e tolstoiano.
Questo periodico, che divenne ben presto più famoso che letto, si chiamava Leonardo.
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Lo scrittore che lo fondò e ne fu l’editore, che gli dette carattere ed importanza, rivelandosi nelle sue pagine con i suoi strani atteggiamenti e violente passioni, con tutte le sue stravaganze ed impertinenze, era Giovanni Papini, ora conosciuto in tutta Italia, lo scrittore più letto e ammirato dai giovani, il più odiato ed amato.
Di persona Papini è come certa specie di pere brutte a vedere e dolci a mangiare. A prima vista non piace. I suoi lineamenti sono irregolari. La bocca è troppo grande, la mascella troppo sporgente, i denti troppo in fuori, il naso troppo schiacciato, il colore troppo pallido, spesso terreo. Troppo lungo di corpo, cammina come uno scheletro da commedia tutto storto e sdinoccolato.
Ma guardatelo bene, avvicinatelo un poco e vedrete che tutto questo acquista un’altra aria quando è preso in relazione alla sua personalità. Non potete che pensare al mare quando fissate i suoi occhi grigio-verde, alle montagne quando vedete la sua fronte alta e spaziosa, alle foreste agitate dal vento d’aprile quando salite ai suoi capelli tutti mossi naturalmente da una ondulazione. Ecco un uomo diverso dagli altri, voi dite, che se al volgo par brutto, voi sentite che è soltanto strano ed eccezionale. È un segnato da Dio, e questo può essere un buono o cattivo indizio, ma è certo indizio di un destino personale. La grande vena che gli traversa la fronte e scende sul naso schiacciato, l'estrema miopia che dona ai suoi occhi una certa vaghezza e ingenuità, uno sguardo che non si sa bene dove guardi, ma sembra astratto e accaparrato da pensieri più alti, i pomelli della faccia sporgenti come quelli d'un mongolo e un poco crudeli, tutte le sue irregolarità fisiche vi rivelano che siete di fronte ad un uomo abitato da uno spirito non comune. E' un demonio o un angelo?
Quando lo sentirete parlare per la prima volta, avrete in generale l’impressione che si tratti piuttosto di un demonio. Se è un angelo, egli è l'angelo delle tenebre e della negazione, dell'orgoglio ferito e della corrosione. Anzitutto è tradizionale in lui il farvi una accoglienza sgarbata, con qualche domanda imbarazzante o semiderisoria o addirittura insolente. Se poi c'è qualcheduno presente, che fa da pubblico, è molto probabile che una serie di paradossi snoccioli dalla sua bocca e vi mitragli in tutte le vostre fedi più care, o vi tempesti con una grandine pungente di osservazioni sui vostri lati deboli, sui ridicoli meno palesi, e sulle vostre inclinazioni.
Una volta gli venne presentato un tale che aveva invano tentato di uccidersi. Era cosa di pochi mesi. Appena sentito il nome, Papini ricordò la cronaca e gli disse: - Vede, l’unica cosa buona che avrebbe fatto nella sua vita, e non c’è riuscito!
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Di questi aneddoti se ne raccontano a diecine. La domanda imbarazzante, l'osservazione insolente, la risposta piccante sono state per molto tempo una specialità di Papini.
Un professore universitario, da lui spesso e bene bistrattato, colse l’occasione d’averlo trovato un giorno ad una commemorazione di Carducci; per sedurlo e con gesuitico piglio gli disse lacrimando: — Facciamo pace, caro Papini! — Al che svelto egli rispose: — Una tregua, una tregua soltanto, professore!
Le moltissime cose spiritose, gli epiteti da lui affibbiati a letterati del suo e d'altri tempi, le corbellerie e le ironie che egli ha scritto in tanti dei suoi giornali e dei suoi libri, non sono l’acidità corrosiva d’un’intelligenza che studia di fare male altrui, ma la «boutade» naturale, lo spirito d’opportunità, d'una mente fresca, che concepisce con grandissima rapidità, per lampi rischiaratori, e proprio con quello scintillio nel quale i romantici come Schlegel scorgevano la vera caratteristica del genio. Se poi egli ha saputo più spesso vedere i lati ridicoli e cogliere i difetti che le buone qualità della gente che aveva intorno, dovremo attribuirlo soltanto al fatto che questi lati sono più visibili o più evidenti? O piuttosto a una inclinazione del suo spirito, che ha molto sofferto, che non è stato amato abbastanza, che si è inasprito, e vuol essere, sopratutto, chiuso, serrato, diffidente, sordo, e perdere magari una occasione di trovare un’anima bella piuttosto che lasciarsi ingannare da tante che ne hanno l'apparenza? Mi pare evidente che sia così. La vita che egli ci ha narrato non è una vita allegra. E forse non ci ha detto tutta la sua amarezza.
Infelice fisicamente, non ha trovato nei suoi primi anni quella comprensione della sua sensibilità e della sua intelligenza offesa, che poteva renderlo inconsciamente felice, come sono spesso i bambini. Non ha avuto, si può dire, giovinezza o per lo meno l’ha avuta fuori di tempo. La primavera l’ha trovato come un albero che ha messo le gemme prima della stagione e ha sofferto il gelo. Si sente in lui che qualche corda si è rotta, che un rammarico tremola nelle sue parole per una ingiustizia iniziale.
L'amore e l'amicizia sono venute su quest'anima troppo tardi, quando era irreparabilmente ferita. La cicatrice resta sempre e sulla cicatrice si sente meno di prima. Quel freddo, quello scetticismo che taluni hanno notato in Papini nascono di lì, nasce di lì la sua asprezza. Egli ha passato anni di gioventù immersi in uno studio furibondo e in un nero pessimismo. Ci si solleva ben difficilmente da una misantropia iniziale, come quella passata da lui.
Vi sono grida di tenerezza e di ricerca d'amore, che nascono dallo stesso sentimento, nel primo periodo fantastico e romantico di Papini. Egli si interessa allora di problemi morali e filosofici, ma questi gli vanno prendendo una espressione puramente letteraria e vestono spontaneamente la forma di leggende e di miti. Ricordano i metodi di Baudelaire e di Poe, i saggi morali di Maeterlink
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e i travestimenti di Laforgue. Il libro classico di questo periodo è il Tragico quotidiano; nelle ultime edizioni vi è aggiunto Il pilota cieco, e si potrebbe anche includervi, terzo ed inferiore, le Buffonate, che rappresentano uno stanco residuo delle inspirazioni di quel tipo. Questi scritti hanno un luccicore d’oro antico falso, che seduce ancora. La trovata è quasi sempre originale, il getto è felice, ma c’è una rozzezza di stile e, nello stesso tempo, qualche po' di maniera, se si confrontano con gli scritti venuti dopo. Questi sono tanto più sodi ed umani.
Si notano qui due ragioni del suo mutamento, senza nascondersi affatto la principale, che è il suo svolgersi, il suo scoprirsi continuo e approfondirsi come scrittore, come uomo, dico, principalmente nato per scrivere; e cioè: la sua vita in campagna e il suo matrimonio da una parte, dall'altra le sue letture accurate dei classici. Bulciano e la Collezione degli «Scrittori Nostri» (già, quel «nostri» è un programma, per uno che era venuto su da letture internazionali e citava spagnoli e tedeschi, arabi e cinesi). Fu per lui riallacciarsi alla vita vissuta, ritrovare o trovare per la prima volta le esperienze umane, ed allargare il suo dizionario, dal popolo e dagli autori, fino ad allora povero, astratto e spesso comune.
Benedetta la povertà che lo costringe a Bulciano, e il bisogno, che lo costrinse a farsi editore; e poi non guarderemo da vicino le virgole dei suoi testi.
La conclusione di questo movimento fu un libro di confessioni, il capolavoro di Papini: Uomo finito. Non c'è più bisogno di Amleto o del Demonio, di inventar caratteri e di fingere avventure straordinarie per narrare il tormento di una vita. Si dice finalmente quel tormento, quella vita. L'uomo finito è lo stesso Papini, la sua storia, la sua vita, i suoi pensieri intimi, dall’infanzia fino alla sua confessione. Ha tentato tutto — a nulla è riuscito. Ha cercato sempre l'impossibile, il troppo grande, il troppo alto. Come da bimbo ha pensato di compilare l’enciclopedia delle enciclopedie, così da uomo ha sognato di diventare il rivelatore di una nuova religione. Ma tutto gli è fallito — l’affetto della famiglia, la comprensione di spiriti vicini, l’aiuto degli amici, l'estasi del vero amore. Eccolo scontento, scorato, spezzato. Un altro uomo, di mente mediocre, sarebbe soddisfatto della sua fama, del suo successo, della «posizione»; ma Papini aspirava alla grandezza più grande, a quella del genio che spiritualmente rivolta il mondo.
L’opera che avrebbe voluto scrivere era un giudizio universale. E tutto il libro è un sol grido di insoddisfazione, un sol grido verso l’irraggiungibile. È il suo capolavoro perchè è il più vero e sincero dei suoi libri. Gli altri libri molto spesso sono l’opera del «Papini che vuol nascondere il suo segreto». Il suo segreto è la sua debolezza. Papini non è uomo forte, e siccome conosce la sua vulnerabilità, sì trincera, si corazza, si isola; eccolo, con l’audacia dei timidi, attaccare, corbellare, polemizzare, scuotere e denunziare. Non soltanto le dice, le impertinenze, ma le scrive e le pubblica.
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Si è fatto così la fama di un «enfant terrible», della letteratura. Se c'è uno scandalo da suscitare, ci pensa subito, ed è pronto a parlar di corda in casa dell’appiccato, e di antisemitismo da un ebreo e di divorzio se la padrona di casa è divorziata.
Si è fatto questa reputazione, un po’ per il suo spirito naturale e un po’ per voglia di farsela e di accrescersela. Se c'è un vocabolo che non si deve adoperare, lui lo pronunzia subito. E in certi suoi scritti di cinquecento parole si fa conoscenza di quelle cinque o sei peggiori che da Dante a Carducci avessero mai adoperato i nostri letterati. C'è in lui un po’ del vostro Bernardo Shaw (ricordiamoci che parlo sempre al mio inglese) ma di uno Shaw meno contento di sè stesso e delle sue impertinenze: sopratutto, più mutevole, scontento, e perciò mutevole, e forse anche scontento di dover essere mutevole.
Questo del cambiare è uno dei rimproveri più comuni e più fondati che gli vien mosso. Nulla di più evidente. Se ne togli alcune antipatie, come quella per Croce, che gli è sempre rimasta, in qualunque modo la pensasse, si può dire che ogni due o tre anni ha cambiato opinioni. È stato positivista, idealista, pragmatista, ha creduto nella filosofia e l’ha derisa; ha combattuto, poi abbracciato e infine abbandonato il futurismo, ha voluto caldamente la guerra e se n’è stancato, è stato anticristiano ed ora pare cristiano. Nei suoi scritti potrete trovare beffe per tutte le opinioni, e ragioni per tutte le fedi.
Verissimo, ma... C'è un ma che conta moltissimo. Un'analisi della mutevolezza di Papini ci dà risultati molto importanti: prima di tutto è disinteressata, secondariamente risponde sempre ad una estrema pre-sensibilità di quello che ì tempi domandano; infine rivela un altro lato segreto dello spirito di Papini. La mutevolezza di Papini è quella di uno spirito lirico, pronto ad entusiasmarsi per ciò che non è ancora realizzato ed incapace a intraprendere poi il compito più difficile di impadronirsene e di dominarle allorquando incominciano vere difficoltà. Papini si dimostra anche qui nella sua debolezza. C'è in lui un profondo bisogno di verità e di fede, di vita in contatto con quella realtà che da giovine gli è mancata, di sentirsi convinto, e tutto ciò è proprio l'opposto di quel che egli appare spesso, un cinico, un corbellatore, uno scettico. Cioè: è scettico, ma soffre di esserlo; è anche cinico, ma il suo cinismo nasconde un dolore; è un corbellatore, ma non chiederebbe di meglio che d’esser preso in giro lui, pur di aver una fede.
Le sue rivolte contro gli ideali che ha amato, non sono che l’espressione del malcontento verso quelle fedi che non lo hanno trattenuto abbastanza, infiammato totalmente. I suoi movimenti verso le idee, i gruppi, le mode letterarie, le questioni che s'agitano, sono di primo impeto rapidi, raggiungono lo scopo d'un solo balzo. Si rivela allora in lui la sua natura geniale, che sa impadronirsi di un tratto di qualunque soggetto. Ma le conquiste di Papini se sono più rapide di quelle di altri sono meno durature. Egli è come il
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bambino che vede da lontano la nuvoletta rosa e sale di corsa il monte per toccarla, ma quando v'è dentro essa è diventata grigia. La realtà realizzata non lo soddisfa, ed egli se la prende con essa, diventa critico, ironico ed aggressivo. È stata questa la sorte delle idee e dei movimenti in cui ha più sperato, l’idealismo, il futurismo, l'intervento nella guerra.
Come spesso accade, molta fama è venuta a Papini più dalle «sue» idee, cioè da quelle che veniva a mano a mano afferrando e abbandonando, che non dal modo di dar loro una vita, un carattere, una portata, delle relazioni e delle logicità (talora elementari) che non avevano in sè. Egli è stato, e non è il primo caso, più ammirato per le sue azioni peggiori e passeggere che per quelle migliori e profonde, per le manifestazioni rumorose e urtanti che per quelle silenziose e penetranti; basti dir che la sua fama più generale s'è stabilita al tempo del futurismo e de Lacerba.
Gli ha molto giovato pure una caratteristica della sua mentalità, che si osserva specialmente nei suoi articoli: una capacità straordinaria a cogliere in tutte le questioni i tre o quattro capi elementari ed a svilupparli con grande semplicità e spesso semplicismo; fino alle sue estreme conseguenze e con frasi di una evidenza immaginativa che afferra il lettore. Il potere di retorica che hanno alcuni uomini sulle masse è pure in mano di questo intellettuale mediante un siffatto semplicismo, che gli ha reso possibile avvicinarsi alle mentalità più umili e trovare dei lettori in mezzo agli strati più remoti della popolazione.
Così pochi si sono accorti nel frattempo del grande progresso compiuto da Papini nello scrivere. In generale si chiede del «Papini» senza distinzione e gerarchia, si giudica anche Papini, senza discernere il fondo e la superficie, o almeno il suo progresso contro le sue varie stasi. La sua carriera, per così esprimermi, è un seguito di balzi cui seguono stanchezze e stasi lunghe, che sembrano maturare le forze di un nuovo balzo. Arrivato sopra una cima, sembra dopo un poco perderne il possesso e indietreggiare. Di ogni periodo, si può dire che le sue prime produzioni siano le migliori.
Ma è costante intanto il progresso che egli va facendo nello strumento suo: la lingua. Si va notando sopratutto dal tempo del suo ritiro in Bulciano e del suo studio dei classici. Egli è venuto persino ad adoprare il ritmo e le rime, mostrandovi l'enorme facilità che i toscani hanno per i componimenti con una linea determinata e chiusa dalla tradizione. Tuttavia non credo che in queste prove ci abbia dato il segno del suo genio; piuttosto ha misurato con esse la estrema elasticità del suo ingegno, che è veramente da monte e da mare, da penna e da lepre.
Papini è principalmente un artista ma di un carattere suo speciale; un artista delle idee. Il suo mondo di colori e di forme (il mondo esterno) si è presentato a lui forse un po' tardi e se ne eccettui alcuni brani, il resto è opera di talento e di scienza letteraria e, diciamolo pure, accademica, più che di lirico. Il suo lirismo
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è un lirismo morale, di chi sente sempre la preoccupazione di problemi logici ed etici, senza fermarli nelle loro proprie forme filosofiche, ma a modo di certi stranieri, presentandoli nei loro aspetti sentimentali ed estetici.
Anche a questo si ricollega la sua mutevolezza e il suo dilettantismo, che si spiegano perfettamente in quanto le idee non sono per lui un qualche cosa che sostenga lo spirito e metta in discussione la vita, bensì delle occasioni liriche. Si spiega quindi anche quella sua minuta erudizione, che non ha soddisfatto mai i dotti, ma che ha servito a dare a tanti dei suoi scritti l'apparecchio multicolore e interessante che può avere un salotto dove un signore di buon gusto abbia raccolto maschere di selvaggi ed opere d’impressionisti, vasi etruschi e roba greca, tavole del quattrocento e pitture cinesi. Nessuno studioso potrà contentarsi di questo apparato per costruire una storia dell’arte e dello spirito umano ma nel salotto stanno bene e, almeno a prima vista, riescono ad attirare l’attenzione e a distrarre.
La figura di Giovanni Papini è così ricca che può essere sfrondata di più d'un foglioso ramo e di più d'una cima impennacchiata di fiori, senza che ne soffra, anzi guadagnandone quello che è il solido tronco. I negatori di Papini sono oramai finiti; è incominciata una serie più pericolosa di critici, quella degli adulatori; pericolosa per modo di dire e sempre transitoriamente, perchè mai un critico favorevole o contrario, ha potuto soffocare o muovere dal suo corso un poeta. Il quale ha la forza delle cose naturali e semplici, e prosegue anche se gli uomini giurano che non può proseguire, ma non va più in là di quello che vorrebbero andasse.
Della nostra generazione Papini resta il prosatore più forte e lo scrittore più estroso, oltre che lo spirito più rappresentativo del buono e del cattivo che essa ebbe, dei suoi tormenti, delle sue mutevolezze, delle sue incertezze, delle sue aspirazioni. Il tormento che ha avuto è il suo titolo di gloria. E questo tormento ha passato negli altri, risvegliando spiriti senza poter dare loro quiete. È stato un tormentato tormentatore, un'anima che poneva domande e non sapeva dare risposte. Le risposte le hanno cercate i giovani della sua età e di quella che vien dopo, ciascuno per suo conto e per la sua strada.
Resterà come tipo. Nelle sue stravaganze e tracotanze, nei suoi gesti di cui più si può dubitare, da cui più si può dissentire, nelle sue ire e nelle sue simpatie più equivoche, egli ha saputo sempre trasmettere un qualche cosa di simpatico, che spiega come le ire si siano rappacificate, le ferite cicatrizzate, e da ogni parte sì guardi a lui come a qualcheduno, superiore ormai alle prove, che appartiene un poco a tutti, anche a quelli che lo hanno e ne sono stati combattuti.
Resterà come scrittore. La tradizione non dovrà compiere nessuna fatica a prendere questo scrittore ed a riconoscere in lui uno dei più pretti derivati dal Carducci, uno degli anelli della catena
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che si stabilirà domani fra gli scrittori del passato e quelli del futuro italiano. Le sue parole di sdegno e i suoi propositi rivoluzionari saranno dimenticati da tutti. Egli salirà alla gloria del cielo, accanto ai potenti di cui si onora una letteratura, e di cui uno spirito italiano non può fare a meno di essere nutrito, se vuol dirsi nazionale. Accadrà di lui come di certi pittori, così detti d’eccezione, nei quali si ritrova oggi la più perfetta linea della tradizione.
Resterà sempre quel tratto di «genialità» e di «estro» con il quale egli impugna un argomento, tratta una scena, dipinge (più raro) un tipo. Certo egli è scrittore sopratutto di movimento. È il «piglio» con il quale muove il periodo, che ha importanza in lui, sono quelle affermazioni battenti, che si chiudono con rapida e concisa frase, alla fine di un giro di pensieri, è quella partecipazione personale al dramma ideale, sia problema o vita di scrittore e d’amico, che vi si sente sempre piena e ricca, è quella energia, che mancava assolutamente nella prosa dannunziana e pascoliana, ed è caratteristica del nostro migliore italiano; qui è il suo forte e il suo marchio di riconoscimento.
Ed in fondo la sua tenerezza inesplorata e insoddisfatta, il suo bisogno d’amore, che ha trovato tanta sordità d’intorno. E per il quale nessuno di noi ha fatto abbastanza.
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